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Antologia critica di
Roma per le strade


dalla rivista L'albatros, trimestrale culturale diretto da Agostino Bagnato, n. 2, aprile-giugno 2008, di Marco Testi

dalla rivista Credito Cooperativo di Roma, trimestrale, anno XXIII, n. 1, 1 marzo 2008, di Marco Testi




dalla rivista L'albatros, trimestrale culturale diretto da Agostino Bagnato, n. 2, aprile-giugno 2008, di Marco Testi     (inizio)

ROMA PER LE STRADE

Una cartografica tellurica per una Roma narrata. Così può essere definita la raccolta di racconti in questione. Una mappatura delle emozioni grondate dal territorio, la cartografia delle reazioni all’oggi da parte dell’entità urbanistica, il dialogo tra la ragnatela di coinè parlate in questo tempo nell’ordine-disordine del Luogo per eccellenza: ecco, alla fine, la portata di questo Roma per le strade, raccolta di racconti che ha un’unica protagonista, Roma.
Uno pensava che dopo l’espressionismo gaddiano – ma qualcuno dovrà pur riandare a quell’altra forma di particolare torsione della lingua rappresentata dalla Cronaca della vita di Cola di Rienzo – o la medietà “borghese” di Moravia, lasciando perdere il monumento belliano, che travalica per certi versi dal discorso, per la sua grandezza non solo estensiva, non si potesse dire altro dell’Urbe. Della quale hanno parlato, chiariamoci subito, anche coloro che la profondità della lingua non la possedevano o non la sentivano, come Sienkiewicz o Palazzeschi, D’Annunzio o Pirandello, cogliendone aspetti per lo più storici e generali.
In Roma per le strade, invece, i fabulatori tentano di nuovo di ritornare alla grande madre latina, però dalla porta stretta del millennio nuovo, il secondo, così distante da quelle date vicine invece – almeno nel racconto delle origini – a quel primo millennio avanti Cristo. Quasi tremila anni sono tanti, anche per quella città destinata, o condannata, dipende dal punto di vista, all’eternità come la nostra.
Che Roma viene vissuta, letta, raccontata, dallo scrittore d’oggi?
Una entità cosmopolita ma fino ad un certo punto, perché sembra aver preso i lati peggiori della chiusura provinciale e non ancora quelli positivi della comunanza inter-etnica, come in A finestre aperte di Paolo Di Reda. Lo scenario di duelli non dichiarati se non nelle pulsioni schizoidi dei personaggi che navigano in un cultura sempre più auto-referenziale e lontana dalla vita, come accade in Tutta colpa di Borges, di Mario Lunetta, che però ripresenta il precipitare dell’imponderabile e del nascosto in quella che riteniamo realtà o, in Tra viale Mazzini e piazza Campo dei fiori di Renzo Rosso dove si assiste di nuovo, come nel precedente racconto a risposte non commisurate alle situazioni, che danno l’idea dell’alterazione delle percezioni e delle relazioni umane. Il brevissimo frammento quasi lirico di Guido Farneti, Sul ponte degli angeli, nel quale il personaggio si fa capro espiatorio caricando su sé una oscura percezione di distacco dalla vita e dalla verità, in uno scenario in cui anche le cose sembrano investite da un’ombra di lutto: “E singhiozza i primi convogli della Metro come se piangesse le infinite pene del giorno”. Un universo pan-burocratico dove la corsa alla pubblicazione diviene cifra di una cultura alienata e ormai avvitata su se stessa, nel singolare e paradossale La riforma (modello americano) di Cristiana Lardo. L’emergere della bella figura popolare che diviene anche in questo caso elemento espiatorio della violenza e della mancanza di pietas, una mancanza secolare, sembra dire tra le righe il racconto, anzi millenaria, antica quanto l’uomo storico, in C’è sempre il sole alla Garbatella di Danila Marsotto. L’immersione nel sottosuolo già tentato rabdomanticamente da Gadda nella lingua, in cui le parole assumono altre connotazioni che non sono quelle del dato immediato, ostensivo, naturalistico presentando un sottosuolo meta-urbano carico di non detto e di abissi oscuri in Il fesso e l’anomalia di Fabrizio Patriarca.
Anche laddove sembra emergere il solare, l’apollineo, come in Fumo a piazza dei Mirti di Alessio Brandolini, si avverte il brontolìo sotterraneo di una dimensione di non-equilibrio, di eccezione che implica il suo contrario: si tratta di una purezza, quella dell’uomo che vive anima e corpo per la sua donna e i figli che questa ha avuto da un altro, che agli occhi di uno che ragioni in bianco e nero, potrebbe sembrare un controsenso. Il protagonista vende sigarette di contrabbando, mantiene due figli non suoi, ma di un pregiudicato in galera, è da poco padre dell’unico figlio suo. Il lusso più lusso che si può permettere è di portare i figli “adottati” in centro, a fargli vedere cose che in molti causerebbero sorrisetti di superiorità o di compatimento: l’altare della patria, fontana di Trevi. L’elenco delle banalità, direbbe quel tipo di lettore. Eppure dietro tutta questa miseria sociale e culturale si nasconde la profondità del raro, del sentimento allo stato di fusione che passa sopra non semplicemente i capricci e le litigate, che sarebbero rose e fiori, ma una situazione che altri non avrebbero mai accettato, e che lui invece fa sua, provvedendo anzi alla sua conservazione, andando di notte a prendere le sigarette incriminate al sud per poi iniziare a venderle subito dopo, per tutto il settore tiburtino-prenestino. Non c’è nulla di eroico, di veramente trasgressivo, c’è però la medietas di una situazione in cui legalità, illegalità, senso comune del decoro e sopravvivenza si aggrovigliano fino a divenire davvero Roma.
L’universo femminile porta forti elementi di riflessione che vanno oltre la letteratura, come Piccole amnesie fra la vita e la morte, di Francesca Mazzuccato, dove accenti di rassegnazione alla fine, alla sofferenza e al dolore, si fondono, senza essere risolti da un deus ex machina artificioso, bensì nell’apparizione improvvisa, nella bellezza dell’occasione, nella scoperta che il minimo impercettibile fatto che i grandi intellettuali disprezzano muove tutto quello che abbiamo in noi del mondo: “La sacralità è nell’attenzione, nel cappuccino con cuore, nel rossore della ragazza. Ecco quello che non sopportava più suo marito, l’aver abdicato, l’aver preferito gli oggetti alla voglia di guardare e capire”. L’apparizione, l’epifania, lo svelamento tanto cercato – e mai davvero agognato – da qualcuno, tanto per perdere il vizio di fare nomi, avvengono in questo racconto, perché è nella pietra scartata dai grandi che si scioglie la miracolosa reazione chimica della rivelazione che salva: l’altro.
In ognuno di questi racconti c’è la storia di un giorno o di una vita, quella del quartiere che entra nell’uomo o dell’uomo che vive il quartiere, come quella paradigmatica di Prati della memoria di Tiziana Privitera, che è la narrazione della propria quasi intera storia personale in quella della sua generazione e dei suoi luoghi, un racconto fuori del tempo per modus narrandi, oltre le mode e i tic, sembrerebbe un centellinato, misurato, canone linguistico medio, che in realtà è accettazione di quello che sarebbe, senza il nostro intervento, indifferente flusso delle cose, al ruit hora così virilmente accettato come solo una donna sa fare.
Tutti i racconti sono specchio di una zona e di un’anima di Roma, attraverso un linguaggio diverso per un quartiere diverso, per una Roma così distante da quella di Belli, Gadda e Pasolini da non poter permettere che scolastici paragoni, che il cronista qui si astiene dal fare anche se qualche pensiero impertinente corre. Ma non sarebbe che pura sregolatezza, perché nonostante calchi mimetici e linguistici, riferimenti più o meno latenti, qui i narratori vanno per la loro strada, che è quella difficile e ardua – ma pure quelle dell’Ottocento e degli anni Trenta-Cinquanta lo erano, non piangiamo sempre sui tempi – di gente che non conosce il domani, e non ha che la storia degli uomini, pur sempre una storia parziale e tendenziosa, per capire quello che sta capitando tra Centocelle e Villa Borghese.

Roma per le strade, Azimut, 2007, 159 pagine, 10 euro.
Contiene i seguenti racconti:
Fumo a piazza dei Mirti di Alessio Brandolini, A finestre aperte di Paolo Di Reda, Sul ponte degli Angeli di Guido Farneti, Tutta colpa di Borges di Mario Lunetta, La riforma di Cristiana Lardo, Via Giovan Battista Bodoni, 16 di Monica Maggi, C’è sempre il sole alla Garbatella di Danila Marsotto, Piccole amnesie fra la vita e la morte di Francesca Mazzuccato, Il fesso e l’anomalia di Fabrizio Patriarca, Da Termini a via Latina di Fabio Pierangeli, Prati della memoria di Tiziana Privitera, Ricominciamo dalla capanne e Tra viale Mazzini e piazza Campo dei Fiori di Renzo Rosso, Vista san Pietro di Cristiana Rumori.




dalla rivista Credito Cooperativo di Roma, trimestrale, anno XXIII, n. 1, 1 marzo 2008, di Marco Testi     (inizio)

LE VOCI DELLA ROMA MODERNA
In una recente raccolta, autori contemporanei presentano storie ambientate nella capitale

Roma e gli scrittori di oggi, non i classici, almeno nel senso più vulgato, ma quelli che guardano con i nostri occhi, dagli stessi autobus, da macchine simili alle nostre, più o meno. È questo il senso di Roma per le strade: tornare all’Urbe nella contemporaneità, dopo Belli e Gadda, Pasolini e Moravia.
Una città raccontata da voci diverse per tono, stile, lingua: si passa dalla mimesi romanesca di Il fesso e l’anomalia, di Fabrizio Patriarca, alla esattezza leggermente nostalgica, linguisticamente parlando, di Tiziana Privitera, nel suo Prati della memoria. Il sottofondo del libro è quello topografico, letterariamente parlando, s’intende, nel senso che ogni scrittore ambienta la sua storia in un quartiere o in una zona di Roma, luoghi che vengono enunciati nel sottotitolo, a rappresentare una specie di messinscena del territorio capitolino.
Se il lettore più smaliziato dovesse essere visitato dal dubbio di una forzatura tematica, di una artificiosa appiccicatura tra il territorio e la narrazione, sappia che tale dubbio sarebbe ingeneroso: raramente appare la ricerca dell’occasione, la ricerca dell’aggancio. Il rischio del folclore è, tutto sommato, evitato dall’indubbia originalità di molte narrazioni, dalla capacità di alcune di immergere personaggi e luoghi in un bagno narrativo fluido e non legnoso.
È il caso di Piccole amnesie fra la vita e la morte, di Francesca Mazzuccato, dove il pensiero del tramonto umano sembra dominare dall’inizio alla fine. La decadenza, la malattia, lo svelamento della triste verità del corpo giunto al termine, il venir meno di ogni illusione eufemistica sembrano lo scenario unico del racconto. Il quale lentamente, per interna germinazione e non per un procedimento appiccicato dal di fuori, si sostanzia di altre possibilità e di altri significati, prima dei quali l’incontro, le parole, la comprensione profonda dell’altro dentro lo scenario di un bar di Via della Conciliazione. Luogo per elezione del traffico internazionale, del ricordino, della fretta, mai del vero trovarsi. E che invece da luogo dell’esclusione di colei-che-guarda-lavita-fuori diviene spazio sacro dell’incontro con l’altro. Per gran parte del suo progredire Piccole amnesie evoca il labirinto funesto descritto da Kerényi, però non il superamento, ma la possibilità, l’apparizione salvifica, la levità di quello che ci sembrava non produttivo, inutile e spesso dannoso: la parola, il libro, un certo sorriso, avrebbe detto la Segan.
Un’altra Roma colpisce qui, quella di Alessio Brandolini in Fumo a piazza dei Mirti, perché la Città per eccellenza diviene, e per certi versi oggi è, periferia di nessun impero, luogo dell’isola minore, di figli di divinità minori che però, e qui l’autore va controcorrente, si contentano di quello che sono e che soprattutto fanno. Lei ha avuto due figli da un altro, e ne ha uno piccolo con il protagonista, il quale sbarca il lunario vendendo sigarette di contrabbando dall’alba alla sera. La Roma misera, uno immagina, quella degli espedienti che abbiamo imparato a conoscere dagli anni Venti con i racconti di alcuni scrittori. Sì, ma qui si tratta anche d’altro, di qualcosa in più, perché il protagonista narrante è quasi felice della sua vita, una vita spesa tra Casilina, Tiburtina e Prenestina, che qualcuno ci aveva abituato a vedere come i luoghi dell’inferno proletario o della palestra di violenza: ama la donna con la quale vive e quando può porta i figli dell’altro a spasso, o al centro, è contento di guadagnare qualcosa per loro. La storia di un cuore semplice, forse, ma anche la storia di altri modi di concepire la vita che non quelli che i media ci hanno insegnato a invidiare. Il fatto è che la semplicità dei protagonisti è quella della scrittura, in quanto il racconto è costruito in una sorta di monologo interiore che rispetta la grammaticalità del parlante. I fatti non sono tradotti in una coinè media, ma restano articolati in una lingua popolare, mimetica, ma non costruita né artatamente rimessa in bocca ad esotici attori. È la lingua di molti che popolano una Roma proletaria, a volte sboccata, a volte orgogliosa del lavoro umile, perfino dei compromessi senza i quali alcuni annegherebbero nella disperazione.
E poi c’è la Roma signorile di Prati della memoria, che già dal titolo esplicita il rione protagonista vero della storia. Perché questo della Privitera è una storia di formazione di una bambina poi donna poi madre e del cambiamento di prospettiva dello sguardo sul quartiere Prati. Una storia i cui capitoli sono scanditi dalle vie che hanno ospitato gli eventi nodali: la nascita, la scuola, la contestazione, l’amicizia, come se ogni elemento della costruzione umana avesse un suo proprio genius loci. Qui la storia è raccontata da una voce monologante, come altrove in questa raccolta, leggera, ma nello stesso tempo strutturata secondo un antico codice, ordinata, secondo lo spirito del luogo.
E c’è la Roma del difficile dialogo inter-etnico, che appare in A finestre aperte di Paolo Di Reda, dove l’incontro-scontro con il non romano, e neanche italiano, rivela la falsità di alcuni loci communes.
E la Roma del labirinto, non quello metropolitano, che qui il luogo è lo stradone di san Giovanni, ma delle azioni umane, mai prevedibili e sempre in bilico tra ratio e raptus, quella narrata in Tutta colpa di Borges, di Mario Lunetta.
Anche questo colpisce: molto spesso l’espressione nei singoli contributi è figlia del luogo narrato, in modo da rendere la complessità delle corde romane, non solo quelle belliane, ma anche scaturite da un continuo processo di mutamento e mescolanza.

Roma per le strade, Azimut, 2007, 159 pagine, 10 euro.
Oltre a quelli citati nel testo il libro contiene i seguenti racconti:
Sul ponte degli Angeli, di Guido Farneti; La riforma, di Cristiana Lardo; Via Giovan Battista Bodoni, 6, di Monica Maggi; C’è sempre il sole alla Garbatella, di Danila Marsotto; Da Termini a via Latina, di Fabio Pierangeli; Ricominciamo dalle capanne e Tra viale Mazzini e piazza Campo de’ Fiori, di Renato Rosso; Vista San Pietro, di Cristiana Rumori.




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