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PERCORSI DI (R)ESISTENZA
2006-2010

(ebook) Anonima Scrittori, 2011
pubblicato in
"Fili d'aquilone" numero 22
(scarica l'ebook in formato PDF)





Contiene il racconto
Perfetta Cosmica Armonia


PERFETTA COSMICA ARMONIA


Sveglio alle tre del mattino e non soffro d’insonnia. Ormai da oltre un decennio ho addosso una gran voglia di strafare e quindi a letto resisto al massimo quattr’ore. Al posto dei rumori diurni c’è solo un leggero e costante ronzio. Un miscuglio di sirene, ticchettii d’orologi, suoni attutiti da pareti insonorizzate, scricchiolii di mobili e letti. A tenermi compagnia c’è il buio denso e appiccicoso come marmellata di mirtilli e se prendessi l’inverosimile decisione d’infilarmi le scarpe, il cappotto, i guanti e spavaldamente varcassi la soglia dell’appartamento per una breve e salutare passeggiata mi ritroverei, dopo qualche secondo, l’oscurità cosparsa dappertutto, ben pressata sugli occhi, negli orifizi del corpo. I vetri delle finestre sono così ricoperti di buio che se mi venisse voglia di gettare uno sguardo alla luna dovrei sfregare a lungo per fare dei cerchi di pulito, un oblò grande come la mia faccia, lucido e trasparente, che dia la possibilità alla vista di sfondare l’impenetrabile barriera delle tenebre.

Però la scienza ufficiale afferma con decisione che l’imbuto egocentrico tende ad allargarsi e, quindi, prima o poi l’interno s’incontrerà con l’esterno. Il dentro con il fuori.

Inutile avventurarsi da soli nella notte. Sporgersi sul nulla, trascinarsi a fatica e macinare chilometri senza un percorso preciso, un appoggio, una meta prestabilita.

Occorre avere una pazienza illimitata. Prima o poi verranno spianati gli ostacoli che ci dividono, le divisioni fra i popoli e i confini fra gli Stati della Terra. E finalmente sorgerà un’epoca nuova: quella della PERFETTA COSMICA ARMONIA.

Però gli scettici non diminuiscono e a sentire le autorità sarebbero proprio loro, gli increduli incalliti, a impedire di raggiungere, senza altri indugi, l’ambito traguardo.

I commentatori televisivi pagati dal governo fanno finta di crederci, di essere convinti che presto (e per tutti) ci saranno giorni intensamente felici. Non perdono occasione per parlarne con zelo ed eccessivo entusiasmo. A lungo ci insistono sopra durante il Tg della sera, che è quello più seguito dai telespettatori, o nel bel mezzo di un quiz a premi. Gridano a perdifiato che è così: bisogna solo crederci, non avere alcun dubbio!

Io, al contrario, seguito a inferocirmi su sogni strampalati e idee tortuose che fanno venire la nausea ai miei amici, a moglie e figli. A strangolarmi nella sottile tortura d’insistere al di là d’ogni ritegno. Però con i piedi all’asciutto, ben piantati nella sabbia di questo fiorito deserto.

Chissà poi per quale motivo, con quale preciso scopo.

Probabilmente è il modo più pratico per sgretolare forma e sostanza di antiche convinzioni, tutt’ora ben radicate nella mia mente, nel mio inconscio. Per conservare la base o almeno l’ossatura di una possibile alternativa da mettere a disposizione dei miei tre figli: Sirio, Aurora e Domenico. Rispettivamente di tredici, otto e cinque anni.

È questo il motivo che mi spinge, tutti i giorni, a calarmi nelle viscere della terra, giù in cantina. A lavorare come uno schiavo a un tunnel segreto, a un ricovero sotterraneo lungo 821 metri e qualche centimetro.

Da mezzanotte in poi le stanze cominciavano a riempirsi di fantasmi eterei, gassosi. Non li temevo. Anzi, suscitavano vivo interesse e mi facevano ridere per via di quei nasi sempre rossi e le orecchie così ridicole: dritte, lunghe e pietrificate dal freddo dei secoli.

Anche in quei casi c’era sempre qualcuno che mentiva. Potevo essere io, poteva essere mia moglie. Eravamo sposati da poco e trovavamo tranquillizzante far finta di non sapere nulla di quella costante presenza. E loro, le forze oscure generate da un passato espanso nel presente, conoscevano benissimo quella nostra ridicola finzione, però non se la prendevano. Spesso i fantasmi ci scherzavano sopra, battevano i piedi e poi scoppiavano in fragorose risate.

Era come se tutto facesse parte di un gioco dai contorni sfumati, avvolto da un farneticante vapore. Sembrava una cosa normale, quasi tranquilla. Dovuta allo stress, forse, o a quel filo di follia che mi accompagna fin dall’infanzia.

Anche “L’infinito senso del Nulla” (il solo a possedere un altruismo sfrenato) faceva parte di quelle incorporee presenze che gironzolavano per la casa. Quel fantasma aveva la brutta abitudine di starsene in silenzio, nascosto dietro la tenda a fiori della camera da letto. Da lì spiava le nostre mosse armato di microfoni, telecamere digitali e altre sofisticate apparecchiature.

A volte su piccoli bloc-notes prendeva appunti sulle bugie della giovane coppia, sui loro discorsi sfilacciati e ipocriti, sui loro preoccupanti balbettii. Basati sulle difficoltà economiche del momento. Oppure su puerili pettegolezzi condominiali, o su come investire gli scarsi risparmi. Sulla noia del lavoro in ufficio e le rivalità tra colleghi che generano, con gli anni, un odio viscerale. Talvolta sui figli che crescono troppo in fretta.

Dopo dieci anni di matrimonio Giuliana, mia moglie, quando veniva a letto spegneva la luce e all’istante mi voltava le spalle. Per poi dormire fino alle sette meno dieci come un orso in letargo. Con la crema verde spiaccicata sul viso e la testa, per via dei bigodini, trasformata in un cespuglio spinoso.

Da tempo, ormai, aveva smesso di fingersi entusiasta del mio impegno civile, politico e culturale. Credo che da sempre abbia mal digerito il modo in cui trascorrevo i giorni, le mille telefonate fatte e ricevute, la montagna di menzogne con le quali farcivo i miei abili, quanto ipocriti discorsi. Però seguitava a cucinare come sempre e cioè in modo delizioso, sulla tavola non mancava mai nulla e quando rientravo dal lavoro mi salutava con un tiepido bacio sulle labbra. La casa era uno specchio e quando faceva il bucato non dimenticava di aggiungere nella lavatrice un po’ di ammorbidente: soffice biancheria che poi lei stirava a puntino.

I fantasmi li avevo notati da un pezzo, contati, fissati a lungo negli occhi. Persino catalogati nel computer. Però non ero mica scemo, sapevo benissimo che quella scoperta era meglio tenersela per sé, che bastava solo far finta di non accorgersene e la routine quotidiana non avrebbe subito scossoni. Stavo al gioco per paura di sconvolgere la prassi stabilita nei lunghi decenni precedenti. Probabilmente a partire dal matrimonio dei miei bisnonni.

Sono del tutto all’oscuro sui reali motivi che spinsero i nostri antenati a considerare quel modo ipocrita e remissivo di comportarsi, che obbliga a mascherare emozioni e desideri, come il più appropriato e sicuro per il genere umano. In un primo momento lo si accettò perché era l’unica soluzione disponibile. Poi, con il passare dei decenni, quell’adattamento sociale, quella reazione istintiva divenne un’insana abitudine, un rito indispensabile per portare avanti un’esistenza.

Fu così che una necessità contingente si trasformò nell’unico modo per procedere alla meno peggio, per riprodursi ed espandersi nel mondo.

Con il passare del tempo, dei secoli, fu sancita l’irremovibilità della tradizione e una prassi accettata da tutti divenne legge incontestabile. Per pigrizia, per negligenza, per paura di commettere un errore imperdonabile e dalle catastrofiche conseguenze.

Imperterriti, arciconvinti di stare sulla retta via. Resi più saldi dalla benedizione papale, dalle leggi dello Stato sancite dal Codice Civile. I dubbi vennero messi da parte, fatti a pezzi con la scure, gettati nel fuoco, polverizzati a colpi di martello. E questo anche a guerra finita, con quel poco di benessere arrivato con il boom economico.

Un certo giorno, senza alcuna plausibile ragione, i fantasmi non si sono più visti. Vollero trasferirsi in un altro palazzo, in un’altra soffitta, magari più prestigiosa e antica della nostra. Nell’aria hanno lasciato vuoti, strappi, buchi, voragini, cicatrici enormi. Tuttora ben percepibili malgrado i vari e ridicoli rattoppi.

Anche dentro di me, nonostante l’impegno al lavoro, al sindacato, al movimento dei Pugni in Testa, all’associazione culturale “Il retrobottega dei Giusti”, le lunghe letture notturne, i viaggi col circolo ricreativo aziendale, le nuove e sconvolgenti escursioni oniriche, le scappatelle erotiche c’era sempre qualcosa che non andava. Un forte e corrosivo rodimento interno.

Un buco, una voragine.

Un’insoddisfazione di fondo, una rabbia dura e tenace che mi rendeva sempre nervoso, insopportabile a tutti. Talvolta persino a me stesso.

Mi ci sono voluti più di quattro anni per uscire dalla depressione, da quel vuoto mostruoso pieno zeppo di rumori, di schegge conficcate nel collo e nella testa, di buio fitto e di minacce.

Ora sto meglio.

Mi sento calmo e tranquillo. Quasi del tutto a posto, in ottima salute, con pochi nodi dentro a strangolarmi.

Da qualche mese posso fare a meno degli incontri settimanali con la psicologa del Dipartimento di Salute Mentale e con Giuliana, mia moglie, le cose vanno bene, insomma: meglio del previsto, o assai meno peggio che in passato. A letto, ora, non mi volta le spalle, o almeno non lo fa tutte le sere, e all’incirca una volta alla settimana ci abbracciamo con tenerezza e facciamo del sesso con reciproca soddisfazione.

Di solito lo scioglimento dai legami morbosi e fasulli rappresenta una sostanziale libertà di movimento, pensiero, sensazione. Però, per poterne approfittare nel modo giusto, occorrono dosi massicce di coraggio e una rigorosa disciplina mentale.

Io, al contrario, dopo un decennio di lotta per riuscire a togliermi dalle spalle quel peso massiccio, mi sono ritrovato più solo e fragile che mai, frastornato e in preda al panico, come rinchiuso in un acquario in fiamme. Privo di sostegni sicuri: libero, certo, ma vulnerabile e paralizzato. Me ne stavo per giorni rintanato in casa ad annusare gli odori ottusi della mia esistenza, a trastullarmi con la pigrizia, a parlottare di tanto in tanto con mia moglie di cose superflue, insignificanti.

Quattro anni, dicevo, buttati al vento, eppure utilissimi.

Di visite ospedaliere e specialistiche, di ricoveri.

Di psicoterapia, massaggi, e ricostituenti.

Di pesanti punture contro la depressione.

Ed ecco all’improvviso la voglia di resistere e strafare, di vincere quell’assurda scommessa.

Iniziai così, quasi per caso, giusto per realizzare qualcosa che non avesse nulla a che fare con gli inutili passatempi legati alla politica e all’impegno civile, per rimettere in movimento le braccia, la mente, le gambe.

Avevo voglia di ricominciare dall’inizio. Volevo usare le mani come un bravo e paziente artigiano o come faceva mio padre con i suoi pezzetti di terra coltivati a vite e ulivo.

Per non avere più scocciature cambiai persino il numero telefonico, con enorme gioia di mia moglie.

Un po’ alla volta e senza mettermi fretta.

Poi accelerai il passo, il ritmo: giorno dopo giorno, fino a dedicare all’impresa anima e corpo.

Scendo giù appena posso.

Infilo nello zainetto un panino al formaggio, una mela, una bottiglia di acqua frizzante e vado avanti per delle ore, magari per tutta la notte, come una macchina ben lubrificata, messa a punto alla perfezione.

Fatico molto, eppure mi diverto, mi dà gioia perché resistendo ho raggiunto la mia PERFETTA COSMICA ARMONIA.

Contavo di farcela fin dal principio, ora però la speranza s’è fatta intensa, assai più convincente e il traguardo del chilometro, ormai, lo sento vicino.

Da sei anni sono impegnato a fondo nello scavo di un tunnel segreto. Giù, in cantina. Una grotta, un ricovero sotterraneo, un bunker lungo già 821 metri e qualche centimetro.

Con nascondigli, uscite di emergenza, servizi igienici, sala relax, biblioteca e una piccola ma attrezzata palestra.

Ho realizzato anche un ampio magazzino con provviste alimentari per qualche decennio. Un’armeria con venti fucili di precisione, dodici mitra, due bazooka, sette casse di bombe a mano di cui due al fosforo bianco, abbondanti munizioni e una radio rice-trasmittente. Salvo imprevisti, esattamente fra un anno e centododici giorni raggiungerò il chilometro, e allora farò festa e smetterò di scavare.

Il mio è un lavoro duro e frenetico, d’inesauribile pazienza, ma sono orgoglioso di quest’opera. Una media giornaliera di trentasette centimetri e mezzo, un’impresa cesellata ad arte dalle mie mani, ora ricoperte di lividi e calli, di escoriazioni e tagli profondi: ora assomigliano a quelle di mio padre, di mio nonno.

Non sgobbo per me. No, ormai sono quasi vecchio ed è troppo tardi per qualsiasi tipo di cambiamento radicale.

Lo faccio per loro: Sirio, Aurora e Domenico, i miei tre figli che con orgoglio vedo crescere sani e coraggiosi. Grazie al mio tunnel avranno a portata di mano, e in ogni momento della loro vita, la possibilità di fregarsene alla grande dei putridi e falsi legami con gli altri, lo Stato, la Chiesa, i partiti, il passato. Potranno sfondare la gabbia della tradizione, dei rigidi meccanismi sociali e fuggire dai compromessi che alterano la nostra esistenza.

Un esteso e confortevole sotterraneo, una fitta ragnatela dove sparire in caso di bisogno. Per non restare imprigionati nel labirinto delle delusioni, delle attese, con la fantasia spappolata dalle abitudini e dalle ipocrisie, dai sogni andati a male. E ci terrei che i miei figli lo facessero con un tocco di eleganza, con l’agilità di un acrobata che passeggia su un filo teso tra due grattacieli.

In modo concreto e convinto, senza perdersi in sterili lamenti, in faticosi tentativi di modificare una situazione insostenibile e penosa. Che lo facessero così, andandosene via di casa o dall’ufficio sbattendo la porta. Magari con l’aggiunta di una bella parolaccia. Per poi nascondersi lì sotto, nel mio comodo tunnel costruito per loro, per i miei amati tre figli.

Sparire senza lasciare un biglietto, nemmeno una traccia.


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