chi sono Alessio Brandolini
 
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COLLETTIVO R / ATAHUALPA
(quadrimestrale di poesia)
N. 1-3 (nuova serie)
gennaio - dicembre 2006
Anno XXXVI dalla fondazione


Contiene il racconto
Il lago argentato


Il lago argentato


        È vero, non dovevo aver capito proprio nulla di quella strana storia che era la mia vita. Me lo dicevano tutti: moglie, figli, amici, persino il mio datore di lavoro.
        Mi stesi sull'erba umida con le mani tra i capelli e presi a osservare con attenzione un piccolo ragno che svelto e silenzioso s'arrampicava in verticale su un filo invisibile. Avrei avuto voglia di corrergli dietro, d'interrogarlo su tutto, di parlarci per delle ore, ma non so dire per quale motivo mi venne in mente mio padre. Eccolo che sbuffa mentre mi taglia i capelli e poi lo sento urlare: "Stai fermo Alberto, che altrimenti va a finire che ti taglio un orecchio!".
        Erano attimi di panico, quelli. Restavo pietrificato e non battevo nemmeno le ciglia fino a quando quel gigante che era mio padre mi strappava l'asciugamano dal collo e sbattendolo più volte m'urlava sulla testa: "Ecco, il signorino è servito!".
        Il ragno, nel frattempo, a piccoli passi aveva cominciato ad attraversarmi il petto, ma il suo percorso mutava in continuazione e in modo imprevedibile. L'osservavo ancora mirando con gli occhi la punta del naso, forse per questo mi calò addosso un sonno improvviso. Cominciai a sbadigliare: una due tre volte e dopo un po' piegai la testa a sinistra e mi addormentai sul serio. Forse giusto per una manciata di minuti.
        Allora uno strano sogno attraversò il mio sonno.

        Sognai di vivere un'altra vita lontano dalla gente che conoscevo, magari in un altro continente assai più vasto e silenzioso. Ecco, lì dovevo aver conosciuto una donna perché mi ritrovavo felicemente sposato e con lei avevo avuto tre figli che ora mi stavano accanto e facevano un gran fracasso.
        Nel sogno che sto sognando sono a pesca con loro, con i bambini, seduto calmo e rilassato sulla riva d'un lago che brilla come un enorme vassoio d'argento. Ogni tanto parlo con il figlio che mi capita a tiro, anche se con difficoltà perché i tre si spostano in modo frenetico: si rincorrono, fanno un salto, un giro di corsa lì intorno. Però vicino mi vengono spesso, a turno. Mi sorridono, mi toccano, danno uno strattone alla camicia o un bacio sulla fronte e poi scappano, si nascondono, ridono forte.
        Più tardi, quando si sono stancati di correre a destra e sinistra, mi si buttano addosso, si stendono al mio fianco, con le piccole teste appoggiate sulle braccia. I tre bambini, di cui uno soltanto maschio, sono sudati e hanno i capelli scompigliati, la pelle del viso liscia e arrossata. Intanto seguito a osservare con la massima attenzione il filo della canna incastrata in bilico, alla giusta inclinazione, in un cumulo di sassi. Non credo d'aver preso molti pesci, la cesta in vimini lì accanto mi sembra del tutto vuota.
        Per fare contenti i miei figli comincio a raccontare una storia strana, la solita: quella d'un uomo ancora giovane, scomparso all'improvviso e di cui nessuno venne a sapere più nulla. "No, no davvero ragazzi. Lo si cercò dappertutto ma di lui non si trovò alcuna traccia!".
        Orami sono diversi mesi che racconto quella storia, sempre la stessa, ma ogni volta con particolari diversi: aggiungo qualcosa di nuovo o tolgo un particolare e loro, i miei amabili figli, quasi ogni giorno, mi spronano a raccontarla: "Dai papà, e allora?... e poi?... che accadde?... come andò a finire?".

        Nel sogno che so benissimo di stare sognando vedo quel me stesso che pesca fare un lungo respiro, come se volesse liberarsi di qualcosa che gli turba l'anima o la mente. Poi ecco che riprende a raccontare la solita storia dell'uomo sparito nel nulla. I tre figli gli stanno accanto, con la bocca semiaperta e gli occhi grandi, meravigliati, incuriositi.
        Anch'io, allungato sull'erba umida con le mani intrecciate dietro la testa, respiro profondamente come a voler assorbire meglio gli effetti benefici del sonno.
        La storia era circolare, o quasi: quando finiva ricominciava, ma partendo sempre da un punto diverso e aggiungendo o togliendo qualcosa.
        Mentre racconto, stando con gli occhi fissi sul filo teso e sul galleggiante arancione che ondeggia nell'acqua, Stefania, la figlia più grande dai capelli chiari identici a quelli dei fratelli, solo molto più lunghi, lancia con vigore un sasso nel lago che, oltre agli schizzi dovuti all'impatto, produce delle piccole onde, delle scosse. Quei cerchi sulla piatta superficie lacustre si allargano velocemente, si attenuano, si sgonfiano, fino a dissolversi.

        Mi svegliai piuttosto rilassato, anche se di quel sogno che aveva attraversato il mio sonno non avevo capito quasi nulla. Guardai sul petto e il ragno era ancora lì, con i suoi morbidi peletti neri che ora sembravano più lunghi, l'esili e folte zampette: chissà cosa aspettava per andarsene.

        Quel giorno volsi verso casa meno stanco e depresso del solito, quasi allegro, eppure portandomi dietro la certezza d'aver smarrito qualcosa d'importante. Per strada non facevo che voltarmi indietro e guardare in terra. Frugavo in tutte le tasche come se per magia potessi tirarci fuori un biglietto speciale che mi permettesse di tornare, a mio piacimento, nel sogno del lago argentato. Oppure la pagina d'un libro che spiegasse tutto sulla necessità di rubare ai sogni quella profonda soddisfazione di vivere che da svegli non si possiede.


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